Fabrizio Acanfora: In altre parole: dizionario minimo di diversità. Effequ, 2021
Recensione di Enrico Seta
Ho sempre pensato – come Fabrizio Acanfora – che il linguaggio non sia banalmente un mezzo di locomozione di concetti già formati (e quindi compiuti) prima di iniziare il viaggio che li porterà a destinazione. I concetti si “formano” attraverso il linguaggio e ne dipendono totalmente, come questo libro ripetutamente dimostra.
Aggiungo che da almeno venti anni – smaltito il primo effetto di incanto per le magnifiche possibilità di comunicazione e di conoscenza di Internet – osservo con preoccupazione, prima di tutto in me stesso, gli effetti di condizionamento e a volte di accecamento indotti dal linguaggio della rete. Addirittura, mi sento di dire: la nuova comunicazione in rete ha il potere di riplasmare l’uomo contemporaneo.
“In altre parole” di Fabrizio Acanfora parla, prima di tutto, di queste cose.
Certo, parla anche di disabilità, anzi di diversità. Ma lo fa in modo non settoriale: questo è il suo primo merito. Cioè, parla di diversità/disabilità ma con gli occhi aperti sugli orizzonti della realtà contemporanea: il linguaggio e la antropologia del nostro tempo. E qui ho trovato una prima chiave di lettura del suo pensiero: apertura e curiosità verso la realtà.
Riflettendo su questo, credo di aver tratto un insegnamento: c’è un unico modo per sfuggire alle trappole linguistiche e di pensiero in cui è così facile cadere quando si affrontano i temi della diversità, e quindi delle disabilità: mantenere uno sguardo aperto e plurale sul mondo. Evitare ogni integralismo e ogni settorialismo.
L’unico modo per sfuggire alla settorializzazione della diversità/disabilità, agli inutili specialismi (che finiscono per portare dritti al pietismo ipocrita e “ispirazionista”), l’unico modo per evitare di fare della disabilità un’occasione per pontificare a destra e a manca.
Il secondo campanello d’allarme che il libro ci regala sembra forse oggi più scontato, ma invece è utilissimo: non è vero che la diversità/disabilità sia oggi più accettata. Essa è rifiutata, espulsa dalla vita da una forza molto potente. Forse oggi – nel mondo dell’esplosione delle relazioni virtuali – questa forza è immensamente più potente di prima. Questa forza negativa, che non ammette di venire a patti con niente, si nasconde nelle pieghe del linguaggio, nelle sfumature, nella stessa fisionomia di certe maschere di compunzione. La vigilanza – come si diceva ai vecchi tempi dell’impegno politico – è sempre necessaria. Una vigilanza – non bacchettona ma rilassata e tollerante – è necessaria e dovrebbe essere parte del bagaglio mentale di tutti coloro che nella vita hanno a che fare con la diversità/disabilità.
Ma, a proposito, chi sono “coloro che nella vita hanno a che fare con la diversità/disabilità”?
Bella domanda! La risposta però è molto semplice: “Tutti”.
Come ci insegna Alasdair MacIntyre, gli uomini che prendono le decisioni politiche, che amministrano i patrimoni più rilevanti, che scrivono libri e articoli – insomma che hanno il potere di condizionare la società – sono in maggioranza “abili” e hanno (e trasmettono) un’idea della realtà a loro immagine. Ma essi sono una minoranza, e per di più una minoranza “a termine” poiché in tutta una fase precedente della loro vita e in quella che li attende anche loro non sono stati e non saranno per niente “abili”. Eppure decidono tutto. E invece la stragrande maggioranza dell’umanità è fatta da “disabili”. La verità profonda della condizione umana – spiega il filosofo americano – è la dipendenza da altri.
Da questo rompicapo filosofico (che poi non è altro che l’enigma di Edipo e la Sfinge) avremmo molto da imparare. Forse potremmo imparare a pensare in termini di “convivenza di differenze”, piuttosto che di confronto “abilità/disabilità” e, conseguentemente, “inclusione” dei disabili nel mondo dei normali.
Lo stesso Autore, in un altro suo scritto dedicato all’autismo di fronte ai problemi dell’inclusione lavorativa – La diversità è negli occhi di chi guarda – ha proposto di superare definitivamente il concetto di inclusione della diversità sul lavoro.
La radicalità di tale percorso concettuale risulta particolarmente interessante per una iniziativa come quella che abbiamo intrapreso dando vita ad ANDEL poiché è proprio questa radicalità che ci consente di misurare il livello di banalizzazione, di appiattimento (e anche di falsa coscienza) che stanno dietro alla inefficacia delle politiche pubbliche che dovrebbero rendere effettivo un diritto elementare come quello delle persone disabili al lavoro.
Infine, vorrei segnalare un ultimo aspetto che ho apprezzato in questo agile libro: l’equilibrio fra rabbia e gentilezza. L’Autore – mi sembra di capire – nutre il suo pensiero di un sano sentimento di rabbia – che è proprio di chi vive permanentemente e in prima persona la condizione della diversità – ma riesce felicemente a depurare questa rabbia da ogni forma di aggressività o di risentimento. Il segreto di questa forma di sublimazione è una tolleranza che corre come filo conduttore fra le pagine del suo saggio.
La mia non è una considerazione di carattere psicologico. Parlo piuttosto di una scelta di linguaggio e di pensiero: mi sembra un buon equilibrio e un amalgama che oggi può aiutare molti di noi a porci verso le tante cose che “non vanno come dovrebbero”.